martedì 21 febbraio 2012

Intervista a Matteo Nucci

1° tipo di presentazione dell’autore
Trentanove anni, romano, Matteo Nucci ha appena pubblicato il suo primo romanzo “Sono comuni le cose degli amici” (Ponte alle Grazie, 218 pp., euro 14,50). Collaboratore del Venerdì e di Repubblica XL, lavori di filosofia antica alle spalle (sua la nuova edizione del Simposio einaudiano), Nucci aveva finora pubblicato racconti su riviste come “Il Caffè Illustrato” e “Nuovi Argomenti”. Poi il gran salto. Me ne parla davanti a un cappuccino nel bar dove fa colazione. Ne parla come se non fosse un’intervista ma una chiacchierata fra amici.

2° tipo di presentazione dell’autore….
Un largo velo di nuvole copriva il cielo della capitale, un venticello invernale smuoveva le tendine dei due bar in piazza Madonna dei MOnti, e delle persone uscivano dalla chiesa con dei lunghi cappotti avvolgendo il bianco collo con delle sciarpe colorate. Dalla fontana al centro della piazza sgorgava acqua limpida e gelata e a pochi metri di distanza incontrai Matteo Nucci.
Barba incolta, sguardo serio e voce affabile. Queste furono le prime cose che notai. Poi l’orecchino, un anello sul lobo sinistro, non l’avevo visto nella foto sulla copertina del suo libro!
Ci sedemmo ad uno dei tavoli interni del bar più vicino e iniziammo una conversazione che dava l’impressione d’essere un’intervista solo per il registratore sul tavolino.
Matteo Nucci, all’esordio con “Sono comuni le cose degli amici” aveva già pubblicato in passato,  non romanzi, ma racconti, su riviste come Nuovi Argomenti e Caffè illustrato, oltre che collaborare con Il venerdì e la Repubblica XL.

- Sono comuni le cose degli amici, dunque

Forse, non lo so. Non sempre. Quello è un detto greco antico che può significare molte cose e che Platone cita spesso. Ma gli amici non condividono soltanto virtù. Lì è il problema.
- Un problema dei giorni nostri?
Mah, è un romanzo ambientato in questi tempi, sì, però non ha riferimenti temporali precisi, così come non ha riferimenti precisissimi dal punto di vista spaziale. La prima parte è ambientata nella campagna vicino a Roma, la seconda nelle isole greche, la terza invece è proprio qui in città e i riferimenti sono via via più determinati.
Qual è la storia che racconta il romanzo?

La storia è quella di un uomo che perde il padre. Una perdita che lo mette di fronte a una serie di dilemmi tra i quali il principale è: seguire o no le orme di questo padre dalla personalità a dir poco ingombrante.
- Poi il protagonista va in Grecia. E’ un posto che ti appartiene?
Be’ certo, io adoro la Grecia. La prima volta fu al liceo, con la scuola e rimasi folgorato. Iniziò una passione travolgente. Adesso, se d’estate non vado in qualche isola per pochi giorni almeno, poi d’inverno sto male.

Come definiresti il tuo stile di scrittura?
Cerco di raccontare i sentimenti senza dirli, attraverso i fatti. E cerco di spostare le cose importanti dietro un velo. Il centro dell’azione, le vere scelte, i veri problemi sono dietro. Magari ti racconto una tavola imbandita e di là c’è tutto un mondo che si sta aprendo. Qualcosa che non dirò mai esplicitamente.
Quel che insegna Hemingway, come hai spiegato in altre interviste
Sì, ma non solo Hemingway. Anche se sua è la celebre “teoria dell’iceberg” in base a cui, dice Hemingway, la scrittura deve essere paragonata a un iceberg. Come questo compare fuori dall’acqua per un ottavo, ma la sua forza è tutta nei sette ottavi che stanno sotto l’acqua, così è per la scrittura che non deve mostrare se non quell’ottavo che appare in superficie. Ma se lo scrittore conosce perfettamente tutti gli otto ottavi, il lettore percepirà la forza dei sette ottavi nascosti. Qualcosa che portava Hemingway a fare cose stupende, anche esagerate, dico a livello di tagli. C’è un suo racconto che è dedicato a un’impiccagione. Il fatto è che lo tagliò a tal punto da eliminare l’impiccagione e tutto il resto. Straordinario.
Tu sei anche un giornalista. Avevi già contatti con l’editore che ti ha pubblicato?
No, no, io ho scritto parecchi racconti su varie riviste e uno straordinario editor, Vincenzo Ostuni, mi ha cercato perché i racconti gli erano piaciuti. Poi mi ha seguito, incoraggiato, rassicurato durante tutta la stesura del romanzo. Ma si tratta di un caso particolarissimo. E’ un poeta, Ostuni, ha doti fuori dal comune.
Una domanda per gli aspiranti giornalisti: come si arriva a collaborare con Repubblica Xl o con Il Venerdì di Repubblica?
Devi conoscere il giornale, leggerlo in maniera profonda, capire che tipo di storie racconta, come le racconta, a chi le racconta. A quel punto puoi iniziare a fare proposte e sottoporre esempi di quel che vorresti scrivere. Con la mail si può ormai raggiungere chiunque.
Quali sono i tuoi autori preferiti?
A me piacciono molto gli americani. Adesso sto leggendo soprattutto due donne: Flannery O’Connor e Toni Morrison, due dèe della scrittura. Ma la mia passione più forte degli ultimi anni è Cormac McCarthy, uno scrittore immenso, proprio incredibile, un grande maestro di scrittura. Tra gli italiani invece adoro quelli un più duri, aspri, come Fenoglio, Pavese, Rigoni Stern. Comunque non seguo regole nella lettura, mi lascio portare e spesso dipende dal momento. Mi ricordo quando, una quindicina di anni fa, alcuni amici mi consigliarano “American Psycho” di Ellis. Cominciavo a leggerlo e dopo tre pagine abbandonavo. Ho fatto così varie volte, poi dopo qualche tempo, lo riapro e be’, inizio a leggerlo senza staccare gli occhi dalle pagine: me lo sono divorato!
Come è nata l’idea di questo romanzo?
Per me non nasce l’idea di un romanzo. Piuttosto è un lavoro artigianale, la scrittura. In cui c’è un’enorme dose di disciplina e di attenzione. C’era una storia che volevo raccontare, questioni riguardanti i figli rispetto ai padri, il tradimento. Ho iniziato a scrivere senza pianificare granché. Scrivo ogni mattina, io. Scrivevo sempre ed è uscita fuori questa storia.
C’è qualcosa di autobiografico nel tuo libro?
Dipende da quello che si intende per autobiografico. In senso largo, a meno che non scrivi di roba fantasy dove poi comunque ci metti anche lì quello che hai vissuto, in fondo è difficile scrivere di cose che ti inventi completamente. Ma in senso stretto: vuoi sapere se Lorenzo sono io? No, non lo sono: grazie al cielo mio padre è ancora vivo, non è edonista, anzi, è un terribile calvinista, eppoi non ho tradito il mio migliore amico. Però, certo, in Lorenzo ci sono mille cose anche mie, chiaramente, come in molti altri personaggi, anche in quelli femminili. Sai come diceva Flaubert di Madame Bovary, no? Madame Bovary sono io.
Hai iniziato a scrivere un nuovo romanzo?
Sto scrivendo ma non mi piace parlare di quel che ancora non ha forma.
- Cosa si prova per una volta ad essere l’intervistato e non l’intervistatore?
Mi fa piacere, so che vuol dire fare interviste quindi mi diverte vedere gli altri che le fanno.

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Intervista realizzata in zona Monti (Roma) i primi giorni del 2010, credo.

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