martedì 21 febbraio 2012

Intervista a Boris Virani, dalla zuppa al premio Strega

Gordiano Lupi, l’editore di edizioni Il Foglio, aveva già portato al Premio Strega Wilson Saba, pubblicato Sacha Naspini, autore ora passato a Elliot, e Il divoratore di Lorenza Ghinelli, che è stato ripubblicato con successo da Newton Compton e in questo momento viene tradotto in oltre sette paesi in Europa e in tutto il Sud America. Gordiano Lupi scopre talenti e appena ha visto ciò di cui è capace Boris Virani ha deciso di pubblicarlo e di candidarlo immediatamente. Mangia la zuppa, amore è un incrocio tra teatro e letteratura, un romanzo che porta qualcosa di nuovo nel panorama editoriale italiano colmo di novità che sanno di prodotto marcio ancor prima d’uscire.
Di cosa parla il tuo libro?
Il libro parla di un ragazzo dal passato incerto, che si ritrova a muoversi in mezzo a strani personaggi. In realtà non si riesce a capire se questi personaggi siano strani perché sono effettivamente strani, o se vengono distorti dallo sguardo allucinato del protagonista. L’unica cosa che sembra essere ben solida e reale è la zuppa in cui il ragazzo si rifugia ogni qual volta si ritrova a lottare con la consapevolezza dell’assurdo, con il “magone”. Non esiste una trama, non c’è un tempo e quindi non c’è ordine, il libro riporta il flusso di coscienza del protagonista, intervallato dalle descrizioni di strane rappresentazioni oniriche.
Come è nato?
Mangia la zuppa, amore nasce diversi anni fa, e nel tempo ha subìto molte revisioni. Posso dire che è nato completamente diverso da com’è ora, sotto altri pensieri e bisogni. Con il passare dei mesi si è arricchito a livello tecnico e ha perso dei contenuti che ho ritenuto superflui. Direi che dopo quattro anni è proprio per questo che ho deciso di pubblicare: per frenare questa emorragia di contenuti. Stava diventando cinico.

Cosa ti ha ispirato?
Credo che “ispirazione” sia una parola che può voler dire molte cose. Se ispirazione è desiderio di comunicare un qualcosa (e non parlo solo di sentimenti o emozioni) allora sì, nella scrittura del libro sono stato ispirato. Avevo il desiderio di descrivere un certo tipo di vita che secondo me è sempre più diffuso, specialmente fra i giovani. Ma non volevo indicare un percorso particolare, non volevo consigliare, non volevo guidare.
Cosa ci puoi dire riguardo alla scelta dello stile che hai adottato?
Nei capitoli “narrativi” ho cercato di rendere al meglio lo smarrimento del protagonista, che è anche colui che scrive. Il lessico è semplice, la sintassi spesso confusa; periodi molto lunghi o molto brevi, frequenti ripetizioni. Ci sono anche delle stonature evidenti, un congiuntivo strano qua, una parola incomprensibile là. Roba che un italianista al leggerla storcerebbe il naso occhialuto. Tutto questo per rendere il caos che il ragazzo ha in testa, chissene degli italianisti. Per quanto riguarda i capitoli “teatrali” lo stile naturalmente è chiaro, freddo.
Come si collegano le parti teatrali del libro a quei momenti di vita quotidiana?
Apparentemente non si collegano, se non si fa attenzione a brevi messaggi e indizi lasciati nel testo. Solamente nel capitolo finale le due parti si uniscono per creare un collegamento, un nesso, che può essere interpretato in molti modi diversi.
Se potessi, cambieresti ancora qualcosa del tuo romanzo?
Un libro non potrà mai essere perfetto, almeno non nella mente del suo autore. Se non l’avessi pubblicato sono sicuro che sarebbe stato riscritto altre volte (forse per pulire quelle stonature di cui parlavamo prima, che adesso mi sembrano indispensabili). Accorgersi di quando bisogna chiudere, di quando “va bene così e stop”, è sempre difficile. Ogni volta che riscrivi si va a perdere qualcosa per un desiderio (giustificato) di ordine e chiarezza. Prima o poi bisogna staccarsi dal libro. Per me è stata una decisione sofferta, e ancora adesso mi chiedo se sia stata la scelta giusta. Me lo domanderò per anni, perché non potrò più metterci le mani, non potrò più cambiarlo, non potrò più cercare di dargli un tono particolare, un’ “educazione”. Ma non potevo fare altrimenti: mi assorbiva completamente.
Cosa c’è di te nel protagonista?
Di me ha solo il senso del vuoto, dell’assurdo, che comunque è ciò su cui si fonda il libro. La confusione, la mancanza di significati, un qualcosa che molte persone hanno in comune dietro i volti sicuri, provati, quotidiani. I personaggi e i luoghi sono invece frutto di fantasia, eccetto per la torre e per qualche monumento di Pisa. Comunque anche questo è un discorso complesso, una delle classiche domande a cui si fatica a rispondere, perché è difficile capire cosa sia la fantasia, dove inizi la tua vita e dove finisca quella degli altri.
Hai mai avuto il timore di metterti “a nudo” ?
No, questo no, perché nel libro c’è poco di autobiografico.

Come sei arrivato alle edizioni Il Foglio?
Tramite internet. Il Foglio è una casa editrice che accetta l’invio di scritti via email, un sistema economico per un esordiente squattrinato. Sette-otto mesi fa l’editore, Gordiano Lupi, lesse la penultima versione del testo, che al tempo aveva anche un altro titolo. Gli piacque, ma io decisi di aspettare ancora un poco, non ero convinto di pubblicare. In effetti dovevo riscrivere il libro ancora una volta.
Abbiamo sentito che c’è la possibilità che ti traducano all’estero…
Si è fatta avanti timidamente una casa editrice olandese che ha pubblicato grandi scrittori italiani. Stanno valutando.
Chi sono i tuoi autori preferiti?
La letteratura che preferisco è quella “oulipiana”, ovvero quella letteratura francese (e russa) che ha scavato nel campo del surreale. Dovessi fare dei nomi direi Queneau e Vian fra i francesi, Charms e Bulgakov fra i russi, ma ce ne sono moltissimi altri. Nella drammaturgia cito naturalmente Ionesco e Beckett, ma anche un più recente Pinter e altri scrittori “minori” appartenenti al teatro dell’assurdo.
Future presentazioni?
Probabilmente sarò a Roma per la fiera di Genazzano. Forse sarò presente anche al Salone del Libro di Torino, presso lo stand di Historica edizioni.
Stai già scrivendo un altro romanzo?
Ho qualche idea, ci sto pensando, ma ora ho troppo da fare.
Ascolti musica durante la stesura di un testo?
Se posso non ascolto, scrivo molto meglio se c’è silenzio; se invece sono distratto o è una giornata rumorosa metto un po’ di musica. Non un genere particolare, dipende da cosa devo scrivere: vado dall’elettronica alla classica.
Come ti vedi da qui a cinque anni?
Non mi vedo. Nel senso che non sono mai riuscito a immaginarmi più in là del domani. Non riesco a fare programmi.
Riguardo al Premio Strega, prima della scrematura a dodici persone hai detto: “Sensazioni belle, indipendentemente da cosa si deciderà domani. Un’occasione per farsi leggere da molte più persone. Una certa sicurezza, che per un esordiente significa tanto.” Ora che sei uscito, cosa ci dici?
Ripeto quello che ho detto. Essere inserito nella rosa iniziale mi ha dato fiducia, perché il mio libro è stato presentato da due colossi come Predrag Matvejevic e Paolo Ruffilli, che non conoscevo personalmente; e mi ha offerto anche una base importante in termini di visibilità, con la quale spero di poter raggiungere un maggior numero di persone. Detto questo, penso che Mangia la zuppa, amore non sia un libro adatto allo Strega.

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