Gordiano Lupi, l’editore di 
edizioni Il Foglio, aveva già portato al Premio Strega Wilson Saba, pubblicato 
Sacha Naspini, autore ora passato a Elliot, e 
Il divoratore
 di Lorenza Ghinelli, che è stato ripubblicato con successo da Newton 
Compton e in questo momento viene tradotto in oltre sette paesi in 
Europa e in tutto il Sud America. Gordiano Lupi scopre talenti e appena 
ha visto ciò di cui è capace 
Boris Virani ha deciso di pubblicarlo e di candidarlo immediatamente. 
Mangia la zuppa, amore
 è un incrocio tra teatro e letteratura, un romanzo che porta qualcosa 
di nuovo nel panorama editoriale italiano colmo di novità che sanno di 
prodotto marcio ancor prima d’uscire.
Di cosa parla il tuo libro?
Il libro parla di un ragazzo dal passato incerto, che si ritrova a 
muoversi in mezzo a strani personaggi. In realtà non si riesce a capire 
se questi personaggi siano strani perché sono effettivamente strani, o 
se vengono distorti dallo sguardo allucinato del protagonista. L’unica 
cosa che sembra essere ben solida e reale è la zuppa in cui il ragazzo 
si rifugia ogni qual volta si ritrova a lottare con la consapevolezza 
dell’assurdo, con il “magone”. Non esiste una trama, non c’è un tempo e 
quindi non c’è ordine, il libro riporta il flusso di coscienza del 
protagonista, intervallato dalle descrizioni di strane rappresentazioni 
oniriche.
Come è nato?
Mangia la zuppa, amore nasce diversi anni 
fa, e nel tempo ha subìto molte revisioni. Posso dire che è nato 
completamente diverso da com’è ora, sotto altri pensieri e bisogni. Con 
il passare dei mesi si è arricchito a livello tecnico e ha perso dei 
contenuti che ho ritenuto superflui. Direi che dopo quattro anni è 
proprio per questo che ho deciso di pubblicare: per frenare questa 
emorragia di contenuti. Stava diventando cinico.
Cosa ti ha ispirato?
Credo che “ispirazione” sia una parola che può voler dire molte cose.
 Se ispirazione è desiderio di comunicare un qualcosa (e non parlo solo 
di sentimenti o emozioni) allora sì, nella scrittura del libro sono 
stato ispirato. Avevo il desiderio di descrivere un certo tipo di vita 
che secondo me è sempre più diffuso, specialmente fra i giovani. Ma non 
volevo indicare un percorso particolare, non volevo consigliare, non 
volevo guidare.
Cosa ci puoi dire riguardo alla scelta dello stile che hai adottato?
Nei capitoli “narrativi” ho cercato di rendere al meglio lo 
smarrimento del protagonista, che è anche colui che scrive. Il lessico è
 semplice, la sintassi spesso confusa; periodi molto lunghi o molto 
brevi, frequenti ripetizioni. Ci sono anche delle stonature evidenti, un
 congiuntivo strano qua, una parola incomprensibile là. Roba che un 
italianista al leggerla storcerebbe il naso occhialuto. Tutto questo per
 rendere il caos che il ragazzo ha in testa, chissene degli italianisti.
 Per quanto riguarda i capitoli “teatrali” lo stile naturalmente è 
chiaro, freddo.
Come si collegano le parti teatrali del libro a quei momenti di vita quotidiana?
Apparentemente non si collegano, se non si fa attenzione a brevi 
messaggi e indizi lasciati nel testo. Solamente nel capitolo finale le 
due parti si uniscono per creare un collegamento, un nesso, che può 
essere interpretato in molti modi diversi.
Se potessi, cambieresti ancora qualcosa del tuo romanzo?
Un libro non potrà mai essere perfetto, almeno non nella mente del 
suo autore. Se non l’avessi pubblicato sono sicuro che sarebbe stato 
riscritto altre volte (forse per pulire quelle stonature di cui 
parlavamo prima, che adesso mi sembrano indispensabili). Accorgersi di 
quando bisogna chiudere, di quando “va bene così e stop”, è sempre 
difficile. Ogni volta che riscrivi si va a perdere qualcosa per un 
desiderio (giustificato) di ordine e chiarezza. Prima o poi bisogna 
staccarsi dal libro. Per me è stata una decisione sofferta, e ancora 
adesso mi chiedo se sia stata la scelta giusta. Me lo domanderò per 
anni, perché non potrò più metterci le mani, non potrò più cambiarlo, 
non potrò più cercare di dargli un tono particolare, un’ “educazione”. 
Ma non potevo fare altrimenti: mi assorbiva completamente.
Cosa c’è di te nel protagonista?
Di me ha solo il senso del vuoto, dell’assurdo, che comunque è ciò su
 cui si fonda il libro. La confusione, la mancanza di significati, un 
qualcosa che molte persone hanno in comune dietro i volti sicuri, 
provati, quotidiani. I personaggi e i luoghi sono invece frutto di 
fantasia, eccetto per la torre e per qualche monumento di Pisa. Comunque
 anche questo è un discorso complesso, una delle classiche domande a cui
 si fatica a rispondere, perché è difficile capire cosa sia la fantasia,
 dove inizi la tua vita e dove finisca quella degli altri.
Hai mai avuto il timore di metterti “a nudo” ?
No, questo no, perché nel libro c’è poco di autobiografico.
Come sei arrivato alle edizioni Il Foglio?
Tramite internet. Il Foglio è una casa editrice che accetta l’invio 
di scritti via email, un sistema economico per un esordiente 
squattrinato. Sette-otto mesi fa l’editore, Gordiano Lupi, lesse la 
penultima versione del testo, che al tempo aveva anche un altro titolo. 
Gli piacque, ma io decisi di aspettare ancora un poco, non ero convinto 
di pubblicare. In effetti dovevo riscrivere il libro ancora una volta.
Abbiamo sentito che c’è la possibilità che ti traducano all’estero…
Si è fatta avanti timidamente una casa editrice olandese che ha pubblicato grandi scrittori italiani. Stanno valutando.
Chi sono i tuoi autori preferiti?
La letteratura che preferisco è quella “oulipiana”, ovvero quella 
letteratura francese (e russa) che ha scavato nel campo del surreale. 
Dovessi fare dei nomi direi Queneau e Vian fra i francesi, Charms e 
Bulgakov fra i russi, ma ce ne sono moltissimi altri. Nella drammaturgia
 cito naturalmente Ionesco e Beckett, ma anche un più recente Pinter e 
altri scrittori “minori” appartenenti al teatro dell’assurdo.
Future presentazioni?
Probabilmente sarò a Roma per la fiera di Genazzano. Forse sarò 
presente anche al Salone del Libro di Torino, presso lo stand di 
Historica edizioni.
Stai già scrivendo un altro romanzo?
Ho qualche idea, ci sto pensando, ma ora ho troppo da fare.
Ascolti musica durante la stesura di un testo?
Se posso non ascolto, scrivo molto meglio se c’è silenzio; se invece 
sono distratto o è una giornata rumorosa metto un po’ di musica. Non un 
genere particolare, dipende da cosa devo scrivere: vado dall’elettronica
 alla classica.
Come ti vedi da qui a cinque anni?
Non mi vedo. Nel senso che non sono mai riuscito a immaginarmi più in là del domani. Non riesco a fare programmi.
Riguardo al Premio Strega, prima della scrematura a dodici 
persone hai detto: “Sensazioni belle, indipendentemente da cosa si 
deciderà domani. Un’occasione per farsi leggere da molte più persone. 
Una certa sicurezza, che per un esordiente significa tanto.” Ora che sei
 uscito, cosa ci dici?
Ripeto quello che ho detto. Essere inserito nella rosa iniziale mi ha
 dato fiducia, perché il mio libro è stato presentato da due colossi 
come Predrag Matvejevic e Paolo Ruffilli, che non conoscevo 
personalmente; e mi ha offerto anche una base importante in termini di 
visibilità, con la quale spero di poter raggiungere un maggior numero di
 persone. Detto questo, penso che 
Mangia la zuppa, amore non sia un libro adatto allo Strega.
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