mercoledì 29 febbraio 2012

Recensione di "Scomparso"

Pur essendo uscito per la prima volta oltre 40 anni fa, Scomparso è un romanzo di un’attualità sconcertante e connotato da un linguaggio moderno e mai volgare nonostante non si tiri indietro nel descrivere e trattare temi tutt’altro che all’ordine del giorno. Un plauso iniziale, quindi, va sia alle capacità letterarie di Joseph Hansen, autore, che riesce sempre a rimanere in equilibrio tra innovazione e buon gusto, ma anche a Manuela Franzon, traduttrice, che fa di questo mestiere spesso tristemente sottovalutato un’arte.
Il detective protagonista non è il solito investigatore a cui la letteratura noir (più o meno) ci ha abituato negli anni: prima di tutto lavora ufficialmente per una compagnia di assicurazioni (il che, probabilmente, lo rende perfino più temibile!); in secondo luogo è dichiaratamente omosessuale. Sicuramente uno dei pochi, se non l’unico, detective gay della letteratura. Il suo nome è Dave Brandstetter e il caso di cui si occupa in Scomparso è quello di un uomo, Fox Olsen, candidato sindaco di una città della California e celebrità della radio locale, che non si trova e la cui eventuale morte potrebbe fruttare 150.000 dollari ai familiari (una bella cifra, se rapportata all’epoca in cui il racconto si svolge: gli anni ’70).

Recensione de "La casa per bambini speciali di miss Peregrine"

La casa per bambini speciali di miss Peregrine porta con sé qualcosa di mistico e magico sin dalla pubblicazione negli USA da parte di una casa editrice che sforna al massimo 25 titoli l’anno, e che tra i suoi bestseller ha avuto giusto Orgoglio e pregiudizio e zombie e alcuni manuali di non grande importanta. Insomma, deve essere stata una piacevole sorpresa vedere Miss Peregrine prima essere nominato libro del mese su Amazon, poi entrare nella classifica bestseller del NY Times e in seguito vendere 200.000 copie nelle prime settimane di pubblicazione.
Ma mettiamo da parte le cifre, per quanto favolose. Vediamo il contenuto di quest’opera che molto probabilmente diventerà un classico. Jacob Portman è un bambino che sogna l’avventura. Jacob ha un nonno, un raccontastorie al quale non crede nessuno. Quando Jacob diventerà un ragazzo scoprirà che è inutile partire all’avventura, perché il mondo è già stato completamente esplorato, e inoltre si renderà conto che le storie del nonno devono per forza esser false. Bambini speciali, figurati se è possibile!
La vita per Jacob è quindi una noia, una noia tremenda, spezzata solo dalla traumatica uccisione del nonno, che e in punto di morte lo indirizzerà verso un’isola misteriosa dall’altra parte dell’oceano. Forse un po’ di avventura ci sarà, nella vita di Jacob.

martedì 28 febbraio 2012

Recensione de "I piatti più piccanti della cucina tatara"

La più grande vittoria di Alina Bronsky in questo suo nuovo romanzo è quella di riuscire a non farci chiudere il libro per via dell’odio profondo che si prova nei confronti della protagonista, la vecchia – ma giovane all’anagrafe – signora Rosa; e già questo nome, attribuito alla madre di Sulfia e nonna di Aminat è una grandissima presa in giro sulla quale la Bronsky gioca, perché Rosalinda “rosa” non lo è per niente, nemmeno nella più inifinitesima parte del suo DNA, e fa di tutto per ricordarcelo: costringe Sulfia a compiere azioni contro i suoi principi, Aminat a sottomettersi alla sua volontà e prova addirittura a imporre a Dio il proprio volere! Ovviamente, e a questo punto è da ritenersi scontato, la signora crede d’aver ragione e diritto su tutto, sempre.
Con il comunismo di sottofondo, che viene percipito senza la necessità di chiamarlo con il suo nome ma solo attraverso i gesti e le azioni dei personaggi, tre femmine provano a sopravvivere alla loro rispettiva famiglia, più che al mondo che le circonda… Solo Aminat riesce a tener testa a nonna Rosa, però sotto minaccia, crolla, ubbidisce e tace. “Se primo smetti di essere così trasandata, secondo continui ad andare bene a scuola, terzo una sera sì e una no lavi i piatti al posto di tua madre, quarto il sabato passi l’aspirapolvere, quinto prepari i vestiti che tua madre deve lavare, sesto le ricordi quando deve fare la spesa… Hai segnato tutto? Bene. Se fai queste cose per tre mesi potrai prendere un gatto”.
Dopo aver responsabilizzato (sarebbe meglio dire “schiavizzato”) la nipotina, il pensiero della nonna è il seguente: “L’arrivo del gatto ebbe anche risvolti positivi. Per ragioni oscure, infatti, Aminat dava per scontato che Parassita (il nome del gatto secondo Rosa) fosse mio. Bastava che minacciassi di toglierglielo e lei faceva tutto quello che volevo”.

domenica 26 febbraio 2012

Recensione di "Malcom"


La copertina di questo romanzo, Malcom, scritto da Massimo Cuomo e uscito per edizioni e/o appena due settimane fa, è perfettamente in grado di descrivere la situazione del protagonista di questa storia, Marcello Zanzini, trentenne rimasto al verde e con una casa vuota, o che si sta per svuotare poco alla volta, pagina dopo pagina.
La vicenda si svolge nell’arco di una settimana scandita dai titoli dei capitoli del libro. Il primo, appunto, è domenica. Massimo Cuomo parte dal giorno di riposo preferito dagli italiani per ingannarci, per farci credere che il protagonista magari un lavoro ce l’ha e che in questo momento è casa come tanti altri, e invece è appena stato licenziato. Oltre al danno c’è pure la beffa: al momento non ha un soldo e, come suggeritogli dal miglior amico che gli parla via chat, si mette a vedere oggetti su eBay, roba il cui valore affettivo è cento volte superiore al valore reale. Ma non è finita qui, infatti il caro Marcello Zanzini ha appena scoperto la sua, ormai ex, ragazza con un venditore porta a porta; e fin qui è una storia come tante, se non fosse che un giorno un barbone gli regala una scheda telefonica e la sua vita inizia a percorrere dei binari stabiliti da un certo Malcom.
Malcom è uno di quei libri che partono malinconici e poi, piano piano, ti fanno sentire bene. Si inizia a tifare per Marcello Zanzini affinché la sua vita migliori dal lavoro all’amore, sotto ogni punto di vista. Ci si immedesima e lo si accompagna con la speranza di infilarsi tra una riga e l’altra, parola dopo parola, e dargli una mano.
Un romanzo che è uno specchio del ritratto dei giovani d’oggi, costretti tra precarietà e carriere senza senso, imbambolati dal capo o dai compagni di lavoro che usano termini inglesi invece che vocaboli italiani. Malcom ai giovani fa pensare: “Sì, è capitato anche a me”, e non è un pensiero positivo, solo depressione sociale su vasta scala.
Inoltre gli appuntamenti tra amici partono tutti sul web e poi, se proprio serve, si usa il telefono. Su Skype, MSN, o Facebook è più facile, il lato negativo è che mentire da dietro uno schermo è semplice: il senso di colpa è minore e non c’è il tono della voce che “ti frega”, si possono nascondere le emozioni con molta facilità dato che la conversazione è sterile, senza passione, pure quando la passione dovrebbe esserci.
Le edizioni e/o si confermano scopritrici di talenti italiani: quest’anno, dopo gli esordi di Viola Di Grado e Fabio Bartolemei, ecco un altro autore da seguire, Massimo Cuomo. Ciò non può che confermare il fatto: se i grandi gruppi editoriali fossero un po’ più aperti verso i manoscritti che la gente vorrebbe spedirgli, troverebbero ottimi autori anche tra i giovani italiani senza essere costretti a dare migliaia di euro d’anticipo per comprare i diritti dagli americani.
Massimo Cuomo, con un testo dalla scrittura semplice e comprensibile, ci regala una narrativa alla portata di tutti, che si legge con gran piacere. Un libro perfetto da portare sotto l’ombrellone.

Malcom
Autore: Massimo Cuomo
Casa editrice: e/o
Pagine: 288
Prezzo: 18 €

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sabato 25 febbraio 2012

Recensione de "Il decennio perduto"

Rivalità come quelle tra Francis Scott Fitzegerald eErnest Hemingway non sono applicabili agli autori dei nostri giorni; l’unico paragone, per quanto banalissimo ed esasperante, è quello tra i vampiri di Lisa J. Smith e quelli di Stephenie Meyer, ma ad oltre ad avere in comune casi di “pedofilia” (ricordiamolo, i vampiri hanno oltre cento anni e si innamorano delle sedicenni…) e alcune frasi come “Questo genere l’ho inventato prima io” lanciate casualmente sulla home page del proprio sito, le due signore non sono andate oltre.
Tornando a chi ci sta più a cuore, il signor Scott e il signor Ernest – prima grandi amici, poi grandi rivali, in seguito uno succube dell’altro – hanno reso più eccitante la loro rivalità inserendo l’uno la caricatura dell’altro nei propri racconti e romanzi, oltre che la propria vita, sino a sconfinare nel mito.
La casa editrice Mattioli 1885, alle prese con la (ri)pubblicazione di grandi classici ancora attuali, non ha potuto fare a meno di tenere caldo un posto nel suo catalogo per questa raccolta di racconti scritti da Francis Scott Fitzegerald dal titolo Il decennio perduto. In essa vi sono quattro racconti dal sapore amaro, quasi come quando la fiamma sta consumando lo stoppino di una candela e rimangano quei pochi attimi di luce che necessitano una pronta reazione che spesso non avviene. Potremmo semplicemente dire che questi racconti rappresanto, perlomeno in parte, gli ultimi decenni vissuti dell’autore.
Nel primo, Pazza domenica, veniamo immersi in una festa hollywoodiana. Il protagonista, una sceneggiatore proprio come lo stesso Fitzegerald, fa una figuraccia colossale di fronte alla folla, esattamente come era accaduto a Scott nel ’32 quando si ubriacò di fronte ad illustri personaggi dello spettacolo.
Nel secondo, Finanziando Finnegan, parla un po’ di se stesso e un po’ di Hemingway. In particolare il racconto parla di un autore che il protagonista non ha mai occasione di incontrare (Scott ed Ernest si erano persi di vista per lunghi anni) e questo autore ha un talento enorme, solo che non è così produttivo e chiede sempre continui anticipi e ogni tanto tenta qualcosa di pericoloso, come un certo Hemingway.
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 Il terzo, Il decennio perduto, il racconto che fa da titolo alla raccolta, riguarda gli anni tra il 1930 e il 1940. Fitzegerald si chiuse in se stesso e, come racconta Nicola Manuppelli nell’introduzione al libro, l’autore confessò il proprio fallimento, il tramonto del rapporto sentimentale con la moglie, dell’amicizia con Hemingway. Tutto ciò lo logorò fino alla morte. Il decennio perduto va particolarmente apprezzato perché forse è il racconto che più si discosta dalla vita dell’autore, ma che comunque riesce meravigliosamente a dimostrare l’immagine distrutta che ha di sé. Un lettore fedele a Fitzegerald non può non leggerlo.
Il quarto, Un caso d’alcolismo, è quello che crea più pena nella mente del lettore. L’uomo che perde la virilità e l’indipendenza. Quasi come perdere la libertà.
L’antologico Il decennio perduto assomiglia a un diario romanzato della vita dell’autore, una cosa che in pochi sono in grado di fare. Fitzgerald, ovunque possa essere in questo momento, può consolarsi: pur avendo creduto di essere al di sotto di Hemingway, le sue opere sono ancora amate ed acquistate anche grazie all’Hollywood che non era riuscita ad apprezzarlo appieno, Intanto, i libri del caro Ernest stanno perdendo passo perché difficilmente apprezzabili dal (rimproverabile?) lettore medio odierno. In ogni caso, pochi incontri-scontri letterari possono vantare un tale livello di qualità. In fondo, uno “scontro tra Titani” è pur sempre uno spettacolo imperdibile per i comuni mortali.

Il decennio perduto
Autore: Francis Scott Fitzgerald
Traduttore: Nicola Manuppelli
Editore: Mattioli 1885
Pagine: 96
Prezzo: 12,90 €

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venerdì 24 febbraio 2012

Intervista a Eva Clesis


Eva Clesis, dopo l’ironico 101 motivi per cui le donne ragionano con il cervello e gli uomini con il pisello, torna alla stesura di un romanzo e lo fa con E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco, edito da Newton Compton. Romanzo che originariamente doveva chiamarsi Sulla cattiva strada, ma chiare scelte di mercato (il fatto che Vasco Rossi si ritiri alla fine di questo tour) hanno portato l’editore a cambiare il titolo in quello attuale. Almeno è ciò che viene da pensare. Comunque, con la speranza che un fan di Ligabue non si neghi questa lettura, abbiamo intervistato Eva Clesis.
Come è nato il tuo ultimo romanzo, E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco?
Il romanzo è nato due anni fa, avevo molta voglia di affrontare una storia con più personaggi, carichi di attese, e di incastrarli in un tempo di appena ventiquattro ore. L’idea iniziale era quella di parlare di piccole storie di emarginazione, storie parallele molto simili alla vita quotidiana, in cui chiunque poteva riconoscersi perché abbracciano più generazioni.
La scelta di adottare come sfondo, e infine parte del libro, una protesta studentesca è dovuta ai recenti eventi accaduti a Roma e nelle principali città italiane?
La scelta era funzionale alla storia. Gli studenti della piccola provincia che si spargono per la città e si mischiano alla fiumana di altri studenti, gli insegnanti preoccupati per la riforma scolastica, quella sì una parte fondamentale perché ha portato a un nuovo senso di precarietà sociale: da una parte il ruolo sempre più traballante degli insegnanti, dall’altra il problema della formazione culturale dei ragazzi.
I protagonisti, perlopiù adolescenti ma anche adulti già formati, sembrano tutti vivere in una fase di stallo che la parte del titolo e intanto descrive alla perfezione. Questa è questa la visione che hai riguardo la vita attuale?
La fase non la definirei di stallo, tieni conto che tutto si svolge in un giorno, e se consideri questo, succedono fin troppe cose: la sensazione che ho voluto trasmettere è quella di incertezza esistenziale e dell’imminenza di qualcosa, mi piace descrivere sempre l’attimo prima dei drammi o delle fortune, quel momento in cui tutto in potenza può accadere. Sicuramente uno sguardo disincantato e una visione precaria della vita, quella che ho attualmente, hanno contribuito a formare l’immagine delle vite dei personaggi come di piccoli universi, microcosmi di impressioni e volontà che girano senza una direzione precisa. D’altra parte a quindici anni è difficile avere le idee chiare.

giovedì 23 febbraio 2012

Intervista a Claudio Volpe


Abbiamo avuto modo di intervistare Claudio Volpe, autore alla sua prima pubblicazione con il romanzo Il vuoto intorno, edito dalle edizioni Il Foglio Letterario. Un libro di cui, a breve, verrà tratta un’opera teatrale. Un libro crudo e forte, di cui avrete la possibilità di capire qualcosa leggendo quest’intervista.
Claudio Volpe, ventunenne, scrittore esordiente. Come ti suona questa frase?
Strana. Per l’esordiente non c’è alcun problema. È lo “scrittore” che mi spaventa. Mi piacerebbe sicuramente esserlo pienamente ma per ora diciamo che sto iniziando a percorrere la lunga strada della parola, del pensiero, dei versi, delle immagini, delle storie raccontate con forza e rispetto. Esordire a vent’anni è sicuramente una grande emozione, farlo a certi livelli ancora di più ma è anche un grande impegno, una grande responsabilità. Un pensiero fisso per il resto della vita. Devi riuscire a non smentirti, a non ripeterti e a non deludere nel futuro. Ma anche il presente è un bel rischio. Devi dimostrare che a vent’anni, che nonostante i vent’anni, hai qualcosa da dire, da dimostrare, da far comprendere al pubblico dei lettori, all’altro. Bisogna convincere i lettori adulti che un ragazzo di vent’anni è in grado di scrivere qualcosa di interessante, qualcosa che probabilmente neanche scrittori veterani e affermati sarebbero in grado di scrivere, e al contempo convincere i lettori giovani, della tua stessa età, che tu, proprio come loro hai infiniti mondi dentro, racchiusi uno dentro l’altro come le matrioske. La giovane età, l’inesperienza, la follia, la non ancora avviata degenerazione verso la disillusione sono un vantaggio. Un valore.
Gordiano Lupi, un editore che scommette sui giovani. Quanto è stato emozionante venire a sapere che ti avrebbe pubblicato?
Molto, forse troppo. Io ho avuto davvero poca possibilità di rendermi davvero conto che Gordiano Lupi, il Gordiano lupi de Il Foglio letterario, de la Stampa e traduttore per l’Italia di Yoani Sanchez, aveva deciso di pubblicarmi e mi aveva telefonato dopo soli tre o quattro giorni dall’invio del mio manoscritto. È avvenuto tutto così velocemente da stordirmi… Forse me lo sono meritato però… è quello che mi dicono coloro che già hanno letto Il vuoto intorno: “Mi hai stordito con questo romanzo… ora devo respirare”.
L’inferno e il paradiso sono una tematica trattata da migliaia di anni; la tua idea, che è originale, com’è arrivata?
Non credo che sia arrivata. È sempre stata lì dentro di me. Inferno e paradiso, male e bene, morte e risurrezione sono da sempre dentro di noi, dentro l’uomo anche se qualcuno finge o cerca disperatamente di non accorgersene. Ognuno di noi è fatto di male e di bene, e male e bene hanno entrambi un’importanza fondamentale. Il bene c’è perché esiste il suo opposto, il male, che permette di poterlo riconoscere. Come la luce che esiste solo perché è in grado di prendere il posto del buio. Il romanzo racconta la storia di distruzione di un ragazzo padre che sente il bisogno di annientare se stesso e la propria dignità per poter rinascere e acquisire nuova e compiuta consapevolezza di sé. È la storia di tante vite storte, sbagliate, assurde dove l’oscenità e la follia divengono un valore, la salvezza dalla morte. La salvezza dal nulla.
Era tua intenzione far riflettere il lettore, o sono solo parole capitate nel giusto contesto narrativo?
Era mia intenzione far riflettere e “disturbare” il lettore, fargli sentire il male della storia nella pelle, nelle vene, nella mente perché la vita, come la parola, colpisce non solo al cuore ma anche al corpo. La scrittura è una gioia dolorosa, un sentire straripante che ti spinge ad andare avanti nonostante il male che si può incontrare.
Un libro che è venuto fuori in 10 giorni, poi, quanto ci hai messo per la riscrittura?
Anche per la riscrittura ho impiegato poco tempo. Il lavoro di correzione e riscrittura che ho fatto è stato diretto principalmente ad attuare una ripulitura stilistica del testo. Ho smussato alcuni spigoli (pochi perché volevo che questo romanzo fosse appuntito), ho risolto alcune incongruenze nella trama che inevitabilmente sono venute fuori e ho letto e riletto tante volte ad alta voce il testo per sentirne il suono. Il genere di romanzi che amo sono quelli che assomigliano ad una lunga poesia. Musicalità alternata a singhiozzi, velocità mista a pesantezza. Volevo che le parole avessero un loro peso, una loro importanza e una loro corposità. Solo quando hanno una loro consistenza materiale le parole sono in grado di colpire, di entrare dentro, nell’anima e di scavarvi con forza.
Prossime presentazioni?
Il 2 settembre sarò ad Agropoli, il paese dove per una parte è ambientato il romanzo, nell’ambito del “Settembre culturale al castello”, un’importante manifestazione culturale della durata di un intero mese dove l’arte in tutte le sue manifestazioni sarà protagonista indiscussa. Tra settembre e ottobre ci sarà una nuova presentazione a Pontinia al Teatro Fellini dove Il vuoto intorno diverrà anche uno spettacolo teatrale. Poi ci saranno le date di Latina, Roma, forse Torino e Milano e spero tante altre.
I tuoi autori preferiti?
Amo la letteratura italiana perché ha la caratteristica, di solito, di non essere veloce e disimpegnata. Amo gli autori le cui opere hanno un certo peso al loro interno, il peso del dolore dell’uomo, della ricerca della propria dignità, della vita. Amo le storie contundenti che ti stordiscono. Cerco di leggere un po’ di tutto, sia per quanto riguarda i generi letterari che gli autori. La mia autrice contemporanea preferita è senza dubbio la Mazzantini. Non so spiegarne il perché: è così e basta. Tra gli autori passati apprezzo molto Pirandello e il suo pensiero profondo, la sua acutezza.
Cos’hai sul comodino?
Una pila di circa venti libri acquistati durante questi giorni e in attesa di essere letti. In cima c’è Sangue di cane della Tomassini. L’ho iniziato a leggere e lo trovo davvero speciale, di rara bellezza, spero di poterlo terminare a breve (università permettendo). Alla base della pila ci sono una serie di romanzi russi che ho deciso di leggere durante l’estate. Non l’ho ancora fatto. Credo che ogni libro richieda una specifica preparazione e uno specifico momento della vita per essere letto.
Come ti vedi da qui a cinque anni?
Per ora non mi vedo. Vivo quello che viene. Talvolta siamo così presi dal pensare a come progettare il futuro che finiamo per dimenticarci della bellezza del presente. Dimentichiamo di dover essere felici per quello che ci accade nell’ora, nell’adesso. È vero che il futuro è ciò che maggiormente ci interessa perché è il posto nel quale dobbiamo passare il resto della nostra vita, ma è pur vero che il presente ha il suo perché. Il presente è la chiave che apre la porta verso il futuro.
Una domanda che avresti voluto ti facessi?
“Perché nel tuo romanzo si parla così tanto del dolore?” Se mi avessi fatto questa domanda ti avrei risposto che parlare del dolore è necessario, indispensabile. Il dolore, come il male, gambizza l’uomo, lo rende un animale, una cosa, lo priva della sua dignità. Mariapia Veladiano, finalista al Premio Strega di quest’anno, in una sua presentazione ha detto che l’unica soluzione per evitare che il male si propaghi è farlo morire in sé, accettarlo dentro di noi e bloccarlo, ibernarlo, farlo morire evitando così che esso passi ad infettare qualcun altro. Ecco, io credo che scrivere e parlare del dolore sia un buon modo per iniziare a far morire il male in sé. Far finta di niente, fingere che il dolore non esista o che sia solo transitorio in virtù della ricerca di un antidestino nel quale l’uomo, smettendo di essere tale, si proietti verso l’immortalità e verso il mito della salute perfetta, non ha alcun senso. L’uomo è meraviglioso proprio perché mortale e precario. La precarietà dà valore alla vita perché la rende preziosa. L’imperfezione è un vantaggio. È in essa che risiede la dignità di ognuno di noi.

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